Quando il fare produttivo non basta …


“Vi è solo un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia. Il resto – se il mondo abbia tre dimensioni o se lo spirito abbia nove o dodici categorie – viene dopo. […] Per dirla in breve, è una questione futile. Per contraccambio, vedo che molti muoiono perché reputano che la vita non valga la pena di essere vissuta […]. Giudico dunque che quella sul senso della vita è la più urgente delle domande. [...] Un gesto come questo si prepara nel silenzio del cuore, allo stesso modo che una grande opera. L'uomo stesso lo ignora; ma, una sera, si spara o si annega.

        Cominciamo con queste frasi, scritte da Camus nel suo Mito di Sisifo, per occuparci dei giorni che stiamo vivendo con angoscia quando leggiamo e sentiamo notizie riguardanti i suicidi degli imprenditori in difficoltà o delle persone che hanno perso il lavoro, in ambedue i casi persone rimaste senza risorse economiche per vivere quella vita che ritenevano, fino a ieri, sensata o semplicemente sopportabile.

        Abitiamo una società che ha cancellato ogni possibilità di delineazione di un fine ultimo della vita sociale e politica, o della storia, che non rispetta la natura - giocando con la stessa per realizzare ciò che si può fare, non ciò che sarebbe giusto fare – e vive in un tempo senza futuro inteso come promessa, ma percepito come una minaccia che chiude tutte le possibilità di desiderare, bramare e attendere…

        Non so neanche se questo spazio in cui ci troviamo possa essere chiamato una società; forse è meglio parlare di mercato che sostituisce gli individui con interessi e funzionalità.

     L’età della tecnica rappresenta il culmine del capitalismo, ma anche, e nello stesso tempo, la sua decadenza. L’approccio scientifico e razionale alla vita produce la visione di un vuoto valoriale nell’approccio scientifico e razionale alla vita - nel quale non si trova più una religione, una filosofia o idee normative etiche e politiche - e divora ogni senso, ogni immagine della meta del viaggio che intraprendiamo quotidianamente; la tecnica sostituisce pian piano lo spazio politico con un dominio appunto tecnico (anche con un governo tecnico che toglie di mezzo la voce democratica del popolo) regolamentando le decisioni politiche in base ai fini indirizzati verso nient’altro che il funzionamento del sistema (scolastico, economico, sanitario, pensionistico…), verso una pura processualità.

        Gli uomini e le donne - che si presentano e vengono cercati e valutati soltanto come esecutori di qualche funzione utile al sistema (economico, politico, ecc.) – non vivono più con la speranza e la fiducia il progresso scientifico o tecnico promesso loro da tempo, ma si trovano a fare i conti con il fallimento del benessere garantito da un’epoca contrassegnata dallo sviluppo della razionalità e dominio sulla natura che assicurava una crescita incessante della salute, della ricchezza, nonché della stessa democrazia.


        Questi uomini e donne perdono la loro  complicata e complessa soggettività, venendo questa ridotta  alle competenze tecniche (dunque, quelle del fare, e non dell’agire) e alle caratteristiche richieste dai vari ruoli, affinché si possano garantire varie specifiche prestazioni funzionali all’interno del sistema organizzativo: titolo di studio, corsi specialistici, esperienza professionale, capacità di lavorare in team e di apprendimento e gestione, dinamicità, leadership... 

        Non si parla più delle virtù, o della disposizione concernente la scelta del bene, e della capacità di vivere, o della saggezza, concetti questi troppo generici e poco funzionali e non quantificabili. Anche perché il bene, oggi, dev’essere traducibile in una certa e precisa quantità; la stessa qualità della vita dipende dalla quantità. Si rivendica sempre il calcolo razionale finalizzato alla quantificazione semplicistica mediante svariate griglie etichette. Pure i beni essenziali che servono a vivere e relazionarsi ad altri  (come lo sono una casa, i vestiti, la macchina, ma anche l’istruzione e il modo di comportarsi) vengono giudicati secondo la loro quantificabilità: non basta un vestito comodo o elegante, ma deve essere firmato, visto che il valore che si da al vestito sta nella quantità di soldi che vanno spesi per averlo; la macchina costosa - anche se completamente inutile, visto che un’altra servirebbe lo stesso allo scopo – rappresenta il successo di una persona, di nuovo quantificabile; l’aver fatto un master all’estero o un corso di lingue straniere in Inghilterra ha un suo valore ben preciso nei termini numerici. Tutto questo non soltanto perché i soldi sono diventati non unicamente un mezzo (che troppo spesso si trasforma in un fine) dell’apparire e del qualificarsi, ma anche perché le regole del libero mercato in una società consumistica esigono la produzione e l’acquisto perpetui e non affatto equilibrati tra di loro.

        Si finisce addirittura con l’escludere anche lo stesso consumo, visto che non si riesce a consumare[1] quasi niente di quello che si compra, senza che bisogna subito rimpiazzalo da qualcos’altro, appena prodotto e pronto ad essere venduto.

        E mentre il mercato esige la quantificazione e la subordinazione del consumo alla produzione, sempre più sfrenata e regolamentata dal bisogno di mantenere le ricchezze accumulate nei tempi migliori, l’agire umano è lasciato a se stesso e a una apparente libertà di scelta, senza che si possa imparare a deliberare e a scegliere.  La libertà è vissuta come un vuoto, se non guidata dai principi e dalla responsabilità, da un fine pensato e sentito. La libertà di scelta che ci garantisce la società odierna è ben de-limitata: va bene tutto tranne che uscire dal sistema.



[1] Il verbo italiano ‘consumare’ ha due significati: derivando dal lat. ‘consummare’ significa completare, mentre il significato derivante dal lat. ‘consumere’ si riferisce all’uso continuo di qualcosa. Nel caso delle merci possiamo leggere tutti e due i significati contemporaneamente: un oggetto prodotto per l’uso va usato finché non sia logorato completamente, ed è questo il suo completamento, poiché il suo fine ultimo è, appunto, essere usato e non sostituito senza poter servire al suo scopo. Oggi, gli oggetti che compriamo non vengono logorati, non si realizzano completamente come oggetti di consumo, ma vengono trattati con dis-prezzo, nel senso che si toglie loro non soltanto il vero valore che dovrebbero avere nella vita quotidiana, ma anche quello usuale, quantitativo… Non sarebbe male chiederci se i prodotti che vengono acquistati e subito sostituiti abbiano qualche valore oggettivato che stiamo trascurando ingiustamente. 


Oggi è persino possibile scegliere se essere uomini o donne, ma non possiamo scegliere di essere noi stessi; dobbiamo, invece, essere conformi ai modelli, ben precisi e forzati, indicati dai media e reclamati dal sistema di cui, per lo più inconsapevolmente, facciamo parte. Colui e colei che si chiedono “Chi sono?” e “Come posso diventare quel che sono?”, cioè chi vuole conoscere se stesso – ascoltando la voce interiore “Conosci te stesso”, espressa già all’entrata dell’antico tempio greco – mentre sente l’eco della massima nietzschiana  “Divieni ciò che sei”, è catalogato  come diverso o strano, ma anche improduttivo; quasi fosse un freno e ostacolo al processo rivolto allo sviluppo smisurato della tecnica. Si dimentica, però, che chi conosce se stesso, conoscerà anche “l’Universo e gli Dei”…

Come è stato detto, il sistema deve funzionare, non dev’essere giusto o buono. C’è chi trova qualche appiglio etico individualista, di solito utilitarista, ma c’è anche chi, invece, diventa consapevole dell’insensatezza della vita vissuta reagendo con la demotivazione, impotenza… E che cosa si fa in questi casi nelle aziende? Se la persona è funzionale al sistema organizzativo, si interviene tecnicamente e professionalmente: si analizza il cosiddetto clima aziendale e si insegna tramite corsi formativi a gestirlo a organizzarlo; si motivano le persone grazie all’applicazione delle tecniche psicologiche, della PNL (Programmazione Neuro-Linguistica [NdR]), del coaching, del counseling, delle vacanze premio, degli incentivi e della retribuzione economica… Si interviene sulla persona, come se fosse quasi un oggetto, perché facente parte delle risorse umane, e quelle sì che vanno motivate.

Ma nessuno si chiede se offendiamo quest’umano definendolo una risorsa? A cosa è servito l’imperativo categorico di Kant che ci obbliga a non trattare mai e poi mai l’uomo soltanto come mezzo[2]? Ogni tanto qualcuno se ne rende conto, ma nel gorgo della funzionalità del sistema viene risucchiato anche l’ultimo uomo che lucidamente denuncia la realtà: lo si aiuta con la parola e con diversi corsi di crescita personale, soltanto per togliergli d’addosso “il sentimento che ha lucidamente avvertito l’insensatezza dell’esistenza”, invece di “combattere l’insensatezza dell’esistenza”[3].

Proprio come in certi approcci psicoterapici, la maggior parte degli interventi nelle organizzazioni sono finalizzati a classificare ed etichettare gli individui e gruppi allo scopo di ri-modellarli così che possano ri-entrare nel mondo sociale al servizio del mondo economico, a ri-diventare le risorse, i mezzi, e a rimuovere la naturale e infrenabile attività umana, ovvero la contemplazione  - che è “sola attività” che “si riconoscerà che è amata per se stessa, giacché da essa non deriva nulla oltre il contemplare, mentre dalle attività pratiche traiamo un vantaggio, più o meno grande, al di là dell’azione stessa[4] – la quale (la contemplazione [NdR]) ha un piccolo piccolo tornaconto: ha un piacere proprio che si può chiamare felicità.



[2] Forse siamo inconsapevoli della contraddizione in termini nel espressione “risorse umane”, ma sicuramente siamo sensibili al significato che la stessa comporta. L’insoddisfazione e la tristezza dell’umano derivano anche dal rimosso…

[3] Cfr. Galimberti U., Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano, 2005.

[4] Aristotele, Etica Nicomachea.


        Riflettere sull’esperienza, sul mondo della vita e del lavoro, sui concetti dei fini e dei mezzi con uno sguardo critico - nonostante questo possa essere imbarazzante all’interno di un’azienda-sistema - significa comunque conoscere, comprendere e anche pre-vedere, cioè comportarsi come uno degli dei, appunto Prometeo (colui che vede in anticipo).

        Potrebbe essere un modo antico sì, ma da recuperare, di stare al mondo che ci permetterebbe di ri-trovare il senso e la qualità della vita come prodotto delle virtù e dell’azione; di conoscere il mondo, nel quale i mezzi (tecnica) oramai sono diventati fini (etica); di comprendere la necessità di trovare un nuovo stile di vita, più umano e responsabile. Come fare? Si può provare attraverso un’attività 'dialogica' che nomineremo ‘sensemaking’ - per usare una parola in sintonia con il linguaggio aziendale - che dimostra e continuerà a provare che la filosofia ha ancora molto da dire e da farci fare, anche in questo momento che possiamo chiamare davvero critico.

        Tornando ai suicidi causati dalla criticità del tempo in cui viviamo possiamo riprendere anche il pensiero di Durkheim che - parlando del cosiddetto “suicidio anomico” - ci insegna che quel suicidio causato dall’assenza di valori e di regole è tipico delle società moderne e ha luogo nei punti estremi del ciclo economico, cioè nelle situazioni della sovrabbondanza e della depressione economica. Non a caso Aristotele trovava la virtù nella capacità di scegliere e realizzare la medietà, che è sempre la migliore e si trova tra due estremi…

        E se vogliamo tornare a Camus, alla sua visione della vita come una totale assurdità e insensatezza, possiamo proporre una cosa sola: la rivolta nei confronti dell’esistenza umana senza ragione e vissuta, appunto, come assurdità.

        Se il suicidio può essere visto come un’evasione rispetto alla funzionalità del sistema, una voce che non accetta l’ingiusto, la stessa rivolta può essere pensata come un’evasione rispetto all’assurdo della vita e dello stesso suicidio.

        L’unica maniera per ribellarsi è avere il coraggio di porsi le domande radicali sul senso della vita e tornare a differenziare l’agire (campo etico) dal fare (campo tecnico); bisogna riconoscere la propria impotenza di fronte al sistema opprimente per riuscire ad acquistare la forza di confrontarsi con lo stesso… dando senso alla propria vita, che è sempre e comunque anche lavorativa.